di Giorgio Bernardo
Mi è chiesto di scrivere due righe sulla
Trattoria dei Tre Scalini di Casaralta che era la trattoria dei miei nonni ma,
tra la fine degli anni ’40 e il ’57-‘58 era semplicemente “l’ustarì ed Casarèlta”.
Se le righe saranno più di due….pazienza.
l'entrata della Trattoria su via Ferrarese |
I tre scalini c’erano e servivano per salirvi.
“Fer i tri scalén” significava “andare a farsi un quartino, di quello buono”.
Magari, se i quartini si moltiplicavano, diventava più problematica la discesa.
La trattoria non era granché, ma godeva di
buona reputazione per la qualità dei vini, poche varietà ma molto apprezzate, attentamente
scelte dal nonno nei vigneti della ‘bassa’.
Molto curata la grande cantina, con le enormi
botti dalle quali, secondo precisi ritmi per conservare la migliore qualità, si
travasava il vino nelle damigiane e da queste a fiaschi e bottiglie.
Ricordo gli odori intensi ma garbati di
allora, (del sapore non saprei, mai bevuto vino); al confronto, l’odore dei
vini d’oggi mi rammenta l’acquaragia.
I pasti, non molti per la verità, in genere
per funzionari dell’Officina di Casaralta e alcuni clienti fissi, venivano
serviti solo a pranzo, con cucina rigorosamente casalinga e sfoglia fatta dalla
nonna; le sue tagliatelle avevano una
reputazione che andava anche oltre Casaralta.
Ne andava ghiotta anche la gatta, vissuta
d’avanzi di cucina per oltre sedici anni. Altro che scatolette e croccantini….
Brodo, carne e uova venivano forniti – controvoglia
- dai polli che la nonna allevava in un cortiletto interno.
Era l’unica trattoria dei dintorni e poteva
contare, come clientela principale, sugli operai dell’Officina che arrivò a
toccare anche il migliaio di dipendenti.
il proprietario Aldo e la nipote Renata, con la gonna nera, con un'amica |
Un bacino d’utenza, come si dice oggi, di
tutto rispetto.
C’era chi veniva a farsi ‘il cicchetto’ al
mattino, prima d’iniziare il lavoro, tantissimi a mezzogiorno, dopo aver
pranzato nella mensa dell’Officina e infine, al termine del lavoro, quando
sciamavano a centinaia a cavallo delle biciclette, (uno spettacolo) molti non
rinunciavano a farsi un bicchiere e magari una partita a briscola.
Poi, la sera (mai oltre le dieci però, si cenava
e si andava a letto presto), la
trattoria diventava solo osteria, affollata dagli anziani che d’inverno, stando
seduti ai tavoli, continuavano ad indossare cappellaccio e ‘capparella’. Giocavano
rumorosamente a carte, fumavano toscani e soprattutto bevevano a litri.
Pittoresco, si direbbe oggi.
Qualche volta, quando i fumi dell’alcool
stimolavano le malinconie, ricordavano la guerra, i bombardamenti, le
privazioni, la Russia (qualcuno c’era stato ed era tornato senza un braccio o
una gamba), i rastrellamenti, quando tedeschi e fascisti cercavano uomini da
mandare al lavoro forzato.
Nel bagno degli avventori c’era un’alta
finestrella che si affacciava su un cortiletto interno dell’Officina. La
finestrella era protetta da una grata di metallo, che sembrava murata ma in
realtà era smontabile. In tempo di guerra, durante i rastrellamenti, venne più
volte usata per scappare all’interno dell’Officina e trovare un nascondiglio
migliore.
Ogni tanto si accendevano discussioni di
politica, Togliatti, De Gasperi. Quasi mai di fascismo, c’era poca voglia di parlarne,
con la guerra ancora troppo recente. Erano diventati antifascisti nel Dna e non
era necessario ribadirlo a chiacchiere. Altro che i ragazzotti ‘antifa’ rituali
di oggi.
Non ricordo grandi rancori contro gli
ex-fascisti.
Solamente al signor M., una pasta d’uomo che
abitava nello stesso edificio della trattoria ed era stato il capo-fabbricato
in tempo di guerra, veniva rinfacciata bonariamente una sua frase truculenta
quando sul tetto dell’edificio, così mi è stato raccontato, venne installata
una mitragliera antiaerea: “…se hanno il coraggio di venire, li tiriamo giù
tutti!”.
Quando arrivarono i quadrimotori alleati, altissimi
e irraggiungibili, dopo un sonoro “socc’mel!” scappò alla velocità della luce
nelle cantine, dal robusto soffitto in voltini di mattoni e grandi travi in
ferro che parevano binari ferroviari e forse lo erano.
La camicia nera gli era stata perdonata. La
frase no.
Fatti di rilievo all’interno della trattoria non ne ricordo; mi sono rimaste impresse le fisionomie di qualche avventore, il sig. T, con la ‘balla’ perenne, “al munchèn”, il monchino, mutilato di guerra con un solo braccio che giocava a carte più velocemente di chi di mani ne aveva due, il sig. B. che diceva d’essere cronista del Carlino ma era solo un correttore di bozze e teneva concioni interminabili su tutto lo scibile umano, cliente fisso della cucina.
Fatti di rilievo all’interno della trattoria non ne ricordo; mi sono rimaste impresse le fisionomie di qualche avventore, il sig. T, con la ‘balla’ perenne, “al munchèn”, il monchino, mutilato di guerra con un solo braccio che giocava a carte più velocemente di chi di mani ne aveva due, il sig. B. che diceva d’essere cronista del Carlino ma era solo un correttore di bozze e teneva concioni interminabili su tutto lo scibile umano, cliente fisso della cucina.
E di altri, dei quali non ricordo – o non ho
mai saputo – il nome.
Era, come la Casaralta di allora, semplice, buon vino, buona cucina e buona compagnia. Nulla di più.
Era, come la Casaralta di allora, semplice, buon vino, buona cucina e buona compagnia. Nulla di più.