martedì 9 febbraio 2016

La Trattoria dei Tre Scalini

 di Giorgio Bernardo
Mi è chiesto di scrivere due righe sulla Trattoria dei Tre Scalini di Casaralta che era la trattoria dei miei nonni ma, tra la fine degli anni ’40 e il ’57-‘58 era semplicemente  “l’ustarì ed Casarèlta”.
Se le righe saranno più di due….pazienza.

l'entrata della Trattoria su via Ferrarese
I tre scalini c’erano e servivano per salirvi. “Fer i tri scalén” significava “andare a farsi un quartino, di quello buono”. Magari, se i quartini si moltiplicavano, diventava più problematica la discesa.
La trattoria non era granché, ma godeva di buona reputazione per la qualità dei vini, poche varietà ma molto apprezzate, attentamente scelte dal nonno nei vigneti della ‘bassa’.
Molto curata la grande cantina, con le enormi botti dalle quali, secondo precisi ritmi per conservare la migliore qualità, si travasava il vino nelle damigiane e da queste a fiaschi e bottiglie.
Ricordo gli odori intensi ma garbati di allora, (del sapore non saprei, mai bevuto vino); al confronto, l’odore dei vini d’oggi mi rammenta l’acquaragia.
I pasti, non molti per la verità, in genere per funzionari dell’Officina di Casaralta e alcuni clienti fissi, venivano serviti solo a pranzo, con cucina rigorosamente casalinga e sfoglia fatta dalla nonna;  le sue tagliatelle avevano una reputazione che andava anche oltre Casaralta.
Ne andava ghiotta anche la gatta, vissuta d’avanzi di cucina per oltre sedici anni. Altro che scatolette e croccantini….
Brodo, carne e uova venivano forniti – controvoglia - dai polli che la nonna allevava in un cortiletto interno.
Era l’unica trattoria dei dintorni e poteva contare, come clientela principale, sugli operai dell’Officina che arrivò a toccare anche il migliaio di dipendenti. 
il proprietario Aldo e la nipote Renata, con la gonna nera, con un'amica
Un bacino d’utenza, come si dice oggi, di tutto rispetto.
C’era chi veniva a farsi ‘il cicchetto’ al mattino, prima d’iniziare il lavoro, tantissimi a mezzogiorno, dopo aver pranzato nella mensa dell’Officina e infine, al termine del lavoro, quando sciamavano a centinaia a cavallo delle biciclette, (uno spettacolo) molti non rinunciavano a farsi un bicchiere e magari una partita a briscola.
Poi, la sera (mai oltre le dieci però, si cenava e si andava a letto presto),  la trattoria diventava solo osteria, affollata dagli anziani che d’inverno, stando seduti ai tavoli, continuavano ad indossare cappellaccio e ‘capparella’. Giocavano rumorosamente a carte, fumavano toscani e soprattutto bevevano a litri.
Pittoresco, si direbbe oggi.
Qualche volta, quando i fumi dell’alcool stimolavano le malinconie, ricordavano la guerra, i bombardamenti, le privazioni, la Russia (qualcuno c’era stato ed era tornato senza un braccio o una gamba), i rastrellamenti, quando tedeschi e fascisti cercavano uomini da mandare al lavoro forzato.
Nel bagno degli avventori c’era un’alta finestrella che si affacciava su un cortiletto interno dell’Officina. La finestrella era protetta da una grata di metallo, che sembrava murata ma in realtà era smontabile. In tempo di guerra, durante i rastrellamenti, venne più volte usata per scappare all’interno dell’Officina e trovare un nascondiglio migliore.
Ogni tanto si accendevano discussioni di politica, Togliatti, De Gasperi. Quasi mai di fascismo, c’era poca voglia di parlarne, con la guerra ancora troppo recente. Erano diventati antifascisti nel Dna e non era necessario ribadirlo a chiacchiere. Altro che i ragazzotti ‘antifa’ rituali di oggi.
Non ricordo grandi rancori contro gli ex-fascisti.
Solamente al signor M., una pasta d’uomo che abitava nello stesso edificio della trattoria ed era stato il capo-fabbricato in tempo di guerra, veniva rinfacciata bonariamente una sua frase truculenta quando sul tetto dell’edificio, così mi è stato raccontato, venne installata una mitragliera antiaerea: “…se hanno il coraggio di venire, li tiriamo giù tutti!”.  
Quando arrivarono i quadrimotori alleati, altissimi e irraggiungibili, dopo un sonoro “socc’mel!” scappò alla velocità della luce nelle cantine, dal robusto soffitto in voltini di mattoni e grandi travi in ferro che parevano binari ferroviari e forse lo erano.
La camicia nera gli era stata perdonata. La frase no.

Fatti di rilievo all’interno della trattoria non ne ricordo; mi sono rimaste impresse le fisionomie di qualche avventore, il sig. T, con la ‘balla’ perenne, “al munchèn”, il monchino, mutilato di guerra con un solo braccio che giocava a carte più velocemente di chi di mani ne aveva due,  il sig. B. che diceva d’essere cronista del Carlino ma era solo un correttore di bozze e teneva concioni interminabili su tutto lo scibile umano, cliente fisso della cucina.
E di altri, dei quali non ricordo – o non ho mai saputo – il nome.

Era, come la Casaralta di allora, semplice, buon vino, buona cucina e buona compagnia. Nulla di più.